«Avvicinarsi all'altro come altro» spiega perché sia tanto difficile per noi riconoscere l'altro in quanto tale e rispettare la differenza tra noi. Siamo stati abituati a ridurre l'altro a ciò che ci è proprio o a noi stessi. Al livello della coscienza come a quello dei sentimenti, siamo stati educati a rendere nostro quel che avviciniamo o che ci viene incontro. Il nostro modo di ragionare, il nostro modo di amare consiste spesso in un'appropriazione, sia attraverso una mancanza di differenziazione o una fusione, sia attraverso una trasformazione in un oggetto, un oggetto di conoscenza o di amore, che integriamo nel nostro mondo. Ci comportiamo così in particolare con quelli che ci sono più vicini, dimenticando che sono altri, differenti da noi, ma anche con lo straniero, accolto da noi a patto che lui, o lei, accetti di essere conglobato nei nostri modi di vivere, nei nostri costumi, nel nostro mondo.
Perdiamo così l'emozione e l'arricchimento che riceviamo dall'incontro con l'altro. E spesso è solo all'inizio di un incontro che l'altro ci tocca in una maniera globale e incontrollabile. Allora il mistero che l'altro rimane per noi ci comunica un risveglio, corporeo e spirituale al contempo. Dopo perdiamo questo risveglio, persino la percezione dell'altro svanisce. L'altro è diventato una parte di noi, a meno che non l'abbiamo rigettato. L'altro deve invece stare; insieme dentro e fuori da noi, non dentro o fuori.
L'altro ha un posto nella nostra interiorità, pur rimanendo esterno, estraneo, altro da noi.
Solo così continuerà a commuoverci ed illuminarci, senza che siamo capaci di catturare o fare nostra la reale origine del nostro stato.
Irigaray Amo a te, Bollati Boringhieri, 1993